Un paradosso occupazionale: la crescita di disoccupazione e dei posti vacanti nelle carriere STEM

Nella crescente complessità mondiale, il nuovo Virgilio che accompagna il viaggio sono i dati. Partiamo dunque da questi.

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Nella crescente complessità mondiale, il nuovo Virgilio che accompagna il viaggio sono i dati. Partiamo dunque da questi. L’Istat ci dice che in Italia nel 2020 la disoccupazione è arrivata al 9% con un forte incremento soprattutto della disoccupazione giovanile, che raggiunge il tasso del 29,7% (fascia 15-24 anni). Ci dice altresì che tra i “posti vacanti” delle imprese in cima alla lista si trovano le “attività professionali, scientifiche e tecniche” (classificazione Ateco 2007, fonte Istat: http://dati.istat.it).

Possiamo pensare che questo trend non cambierà a breve: anche i dati sulle università confermano che solo uno studente universitario su quattro è iscritto a facoltà STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) e fra questi solo un terzo è costituito da donne (fonte: MIUR – Anagrafe Nazionale Studenti, ultima rilevazione 2018-2019).

L’esperienza nella selezione in altre città europee, e il confronto con i colleghi, mi hanno dimostrato che il problema non è solamente italiano: ruoli tecnici, a parità di seniority, richiedono sempre tempi di ricerca e selezione molto più lunghi rispetto a tutti gli altri.

 

Le aziende

Il paradosso numerico vede la crescita di disoccupazione giovanile e di posti vacanti nel settore scientifico-tecnologico e non stupirà coloro che quotidianamente si occupano di selezione, soprattutto in settori informatici e in contesti sempre più digitalizzati e tecnologici. È il problema delle aziende, di un mondo privato che da anni rincorre la digitalizzazione, e di un Paese che sino a ora non ha saputo far correre altrettanto e nella stessa direzione l’istruzione. 

Per coloro che giornalmente si confrontano con il mercato del lavoro, le assunzioni, le ricerche, i colloqui ai candidati, è fin troppo evidente la mancanza di incontro fra domanda e offerta di lavoro.

I cosiddetti profili STEM sono sempre più richiesti e sempre meno disponibili, e la situazione non è cambiata nemmeno nell’ultimo anno abbattendo le barriere territoriali attraverso telelavoro, smart e south working. Le aziende devono investire sempre più nella rincorsa a competenze tecnico-scientifiche, arrivando negli ultimi anni a creare apposite academy. Molto spesso questi spazi formativi sono dedicati a persone che sino a quel momento hanno avuto una formazione diversa, o che comunque non gli ha consentito di trovare il giusto spazio nel mondo lavorativo. In questo modo anche a queste persone viene offerta la possibilità per reinventarsi esperti in Digital & Industry 4.0. Altre aziende hanno fatto di questo mancato incontro fra domanda e offerta di lavoro il loro stesso business, creando community di utenti con specifiche competenze e rivendendosi come vetrine per tutte le altre imprese che sono alla disperata ricerca di quei candidati.

 Lo Stato

La crisi che stiamo vivendo, assieme all’aumento della disoccupazione dell’ultimo anno, ha evidenziato ulteriormente questa contraddizione, rendendo più urgente una risposta istituzionale ai fabbisogni occupazionali.

Durante il discorso per la fiducia tenuto da Mario Draghi al Senato il 17 febbraio, il Presidente del Consiglio ha sottolineato come il governo fosse chiamato a “disegnare un percorso educativo che combini la necessaria adesione agli standard qualitativi richiesti, anche nel panorama europeo, con innesti di nuove materie e metodologie. […] È stato stimato in circa 3 milioni, nel quinquennio 2019-23, il fabbisogno di diplomati di istituti tecnici nell’area digitale e ambientale. Il Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza assegna 1,5 mld agli ITIS, 20 volte il finanziamento di un anno normale pre-pandemia”.

A seguito della legge 207/2015, denominata “La Buona Scuola”, il Ministero per l’Istruzione e la Ricerca ha dato il via al Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD) per il lancio di una strategia complessiva di innovazione della scuola italiana e per un nuovo posizionamento del suo sistema educativo nell’era digitale anche attraverso l’utilizzo di Fondi Strutturali Europei. Il PNSD è ambizioso, questo va detto, contempla molteplici obiettivi e fra questi, in particolare, ritroviamo la promozione delle carriere STEM, la formazione di docenti e personale scolastico, azioni per la creazione di curricula digitali e per la riduzione del gap di genere nelle carriere tecnico-scientifiche. Per tutte le azioni individuate, i tempi di prima attuazione sono compresi fra il 2015 ed il 2016. Nel piano sono presenti, per ogni azione, anche obiettivi misurabili e talvolta accompagnati dal lasso di tempo nel quale misurarli che in media si assesta intorno ai cinque anni. Sono trascorsi sei anni e le statiche del 2020 non mostrano ancora significativi cambiamenti.

 

Il problema di genere

L’altro aspetto emergente dei dati trattati è la disparità di genere. I dati provenienti dalle aziende ci dicono ancora una volta che a ricoprire ruoli di taglio tecnico-scientifico sono prevalentemente gli uomini. Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito alla creazione di ruoli specifici che si occupano di Diversity & Inclusion nelle grandi imprese, tutti ruoli volti a innestare un cambiamento culturale che porti consapevolezza su quanto il bilanciamento di genere sia presupposto di produttività e non solo di brand reputation. D’altronde è significativo il nome con cui Unicredit molti anni fa avviò il suo progetto interno denominandolo proprio Gender balance is business, as usual (da: V. Dolciotti, Diversità e Inclusione – Dieci dialoghi con Diversity manager, GueriniNext, 2017).

In alcune realtà, dopo anni, si è iniziato a misurare concretamente tramite KPI l’efficacia di politiche interne per la diversity, questi risultati (la speed of change di queste politiche non è mai troppo alta) ci dicono che le aziende che hanno deciso di gestire la diversità hanno innescato una tendenza positiva. Si è rilevata una crescente equità retributiva fra uomini e donne a parità di ruoli, ma soprattutto a parità di performance, portando anche a equilibrare la presenza femminile fra ruoli apicali.

Questi risultati riguardano però la vita dei dipendenti in azienda nel corso del tempo. Altro discorso è invece la porta d’ingresso delle nuove risorse nelle aziende.

Quando i dati ci dimostrano che fra gli iscritti alle facoltà STEM solo una su tre è donna, significa che i problemi di genere della società nella quale viviamo si ripercuotono indissolubilmente sulle realtà nelle quali lavoriamo e lavoreremo.

È fondamentale per chi vive e dirige la selezione mantenere il focus sul merito e sul talento, evitando alcune derive figlie di una mala gestione della diversità, parlo di quelle scelte infelici a cui abbiamo assistito guidate dal mantra delle assunzioni al femminile a tutti i costi, sacrificando il merito, nel tentativo grossolano che ricerca negli obiettivi numerici la risposta semplice a un problema ben più vasto al quale le aziende da sole non possono porre rimedio.

 

STIAMO VIVENDO con consapevolezza organizzazioni aziendali sempre più fluide, che sempre più sposano modelli agili per creare valore. La pandemia ha spinto l’acceleratore verso forze lavoro più distribuite, più mobili, e il lavoro basato su specifiche competenze è divenuto sempre più digitale.

Michael Porter, economista e accademico fra i maggiori esperti di strategia competitiva, in tempi recenti ha fatto luce su un nuovo approccio che annovera al centro delle strategie aziendali la creazione di valore condiviso. Chissà se in parte non sia proprio questo ciò che sta avvenendo nelle grandi realtà più illuminate, e anche con più risorse, s’intende, realtà che investono sulla formazione dei candidati per poi poterli assumere, creandosi da sole una platea di mercato da cui attingere. Le aziende che si sostituiscono all’istruzione pubblica per creare valore economico e profitto per gli azionisti stanno integrando nel core business stesso un impatto sociale.

Da sempre le imprese sono fortemente influenzate dal contesto sociale nel quale si trovano a operare, ma non è sostenibile per le aziende farsi carico del tutto del cambiamento di quel contesto. In altre parole, le iniziative formative virtuose delle aziende non sono sufficienti a colmare paradossi occupazionali.

In tutto questo possiamo dire che l’“elefante nella stanza” sia una macchina dello Stato e un’istruzione pubblica che spesso dimostrano comportamenti che sono tutto l’opposto delle organizzazioni agili. L’Istruzione rimane per antonomasia investimento a lungo termine; nel frattempo aziende e selezionatori non vedono l’ora di poter misurare in modo tangibile il ROI di questo cambiamento che non è più opzione, ma urgenza.

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